ALIAS DOMENICA 23 GIUGNO 2019
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FORTINI-GIUDICI
letteratura
italiana
di NICCOLÒ SCAFFAI
l dialogo è un dispositivo retorico tra i più caratteristici nella poesia
italiana del secondo Novecento; la sua funzione è spesso quella di far
scivolare il verso in direzione del post-lirico, se
non della prosa. È un fenomeno noto e studiato, specialmente sul piano stilistico. Non ci si
ferma abbastanza a osservare
però che il dialogo è anche il riflesso diretto di una condizione culturale e personale vissuta dai poeti che hanno concepito la scrittura ed elaborato le loro opere avendo in mente un interlocutore reale: quasi sempre un altro poeta o scrittore,
maestro amico rivale, che ha
provocato la scelta di temi, l’adozione di forme, l’espressione di idee.
Il modo migliore per rendersi conto di quanto la letteratura e soprattutto la poesia del secondo Novecento siano effetto
di questa tensione, anche polemica, verso un destinatario è
leggere i carteggi, che non sono complementi eruditi all’opera creativa, ma loro indispensabili premesse. Ciò vale
specialmente per gli autori
che, nelle lettere e negli altri
scritti, hanno strenuamente
esercitato la funzione di reagente e a volte di necessario assillo nei confronti dei propri
corrispondenti. Franco Fortini
è tra questi autori, come mostra il suo vastissimo epistolario, su cui lavora in questi anni
una leva di ricercatori in Italia
(in particolare a Siena, dove è
conservato l’archivio fortiniano) e all’estero (per esempio a
Losanna, in Svizzera). Si deve a
un giovane studioso attivo proprio in Svizzera, a Lugano, un’edizione che conferma molte
delle osservazioni fin qui fatte
sul nesso tra poesia e scrittura
epistolare: Franco Fortini-Giovanni Giudici, Carteggio
1959-1993, a cura di Riccardo
Corcione (Olschki, pp. IV-222,
euro 25,00).
Nel luglio del 1958 i due poeti si erano trovati a dividere il
medesimo ufficio presso la Direzione Pubblicità e Stampa
nella sede milanese della Olivetti. Da quest’esperienza scaturirà un lungo dialogo, destinato a protrarsi fino al novembre del ’93 (un anno quasi esatto prima della morte di Fortini). All’ampiezza dell’arco cronologico non corrisponde una
quantità particolarmente cospicua di documenti: 66 lettere, conservate al Centro APICE
dell’Università di Milano e al
Centro Fortini dell’Università
di Siena. Il curatore ha però aggiunto, opportunamente, in
appendice al corpus una serie
notevole di appunti di Giudici
su Fortini, tratti dalle agende
personali tenute dal poeta negli anni sessanta e novanta (anche questo importante materiale è custodito presso il Centro APICE). Trascritte con scrupolo, le lettere sono corredate
da un’annotazione discreta, essenzialmente bibliografica e
denotativa (avrebbe giovato
qualche chiosa in più di commento vero e proprio, data la
densità delle argomentazioni
con cui i due corrispondenti si
confrontano reciprocamente).
Nell’ampio saggio introduttivo, Corcione annoda con perizia i fili tra opere e lettere, per
I
Nel 1958 divisero l’ufficio alla Olivetti:
ne scaturì uno scambio di lettere
(con versi) su temi socio-letterari,
ora raccolto da Olschki: alla lunga
vinse la distanza ideologica tra i due
Sergio Fregoso, Tuta
da palombaro, Le Grazie
(La Spezia), anni ’70,
archivio privato
famiglia Sergio Fregoso
Lettere e fratture
tra un maestro
e l’allievo volontario
esempio sottolineando il parallelo tra Verifica dei poteri di Fortini e La vita in versi di Giudici. Le
due opere, entrambe uscite nel
1965, condividono la riflessione di fondo sul rapporto tra l’io
e un ordine che lo trascende,
sia questo di natura metafisica
o politica: «Da qui – scrive Corcione – deriva la sovrapposizione interiore della doppia escatologia cattolica e comunista a
cui (…) Giudici rimane fedele
nei termini di una Weltanschauung».
Nelle prime battute del carteggio è soprattutto Giudici a
interpellare Fortini, più anziano di soli sette anni e ciononostante riconosciuto subito come maestro. D’altra parte il
ruolo di ‘allievo’ volontario ha
il suo prezzo; il 20 aprile del ’61
Giudici annota nella sua agenda: «Questo Fortini è veramente irritante. (…) Ma l’assurdo sono io che sollecito da lui una patente, un riconoscimento di
progressismo e di democraticità». In cambio, ne riceve i fondamenti di una formazione cultu-
rale nutrita dalle autorità, tra
gli altri, di Lukács, Benjamin,
Barthes, Noventa, don Milani.
Appena sei mesi dopo l’incontro, Giudici compone i Versi per
un interlocutore: è una «poesia
notevolissima – commenta Fortini nella prima lettera del carteggio (scritta dopo il dicembre
’58) – di gran lunga superiore a
quanto dà, oggi, il genere. Mi riconosco in parte nell’interlocutore; e ti sei saputo intrecciare
affettuosamente al mio “Al di là
della speranza”».
Ma il dialogo, pur avviato sul
filo della poesia, s’instaura tra
due intellettuali più che tra
due poeti. Nelle lettere, peraltro spesso accompagnate dai rispettivi versi, rare sono le osservazioni specifiche sulle ragioni dei testi; il piano su cui avviene lo scambio è prevalentemente ideologico e socio-letterario. I temi ricorrenti sono la
relazione tra scrittore e industria culturale e la dimensione
politica della letteratura, questioni alla luce delle quali si determinano le ipotesi di schiera-
mento e intervento che Giudici sottopone a Fortini, impegnandosi (e a volte incagliandosi) in lunghe disamine ispirate
dall’esempio e dagli scritti del
destinatario. Sono di particolare importanza le lettere che
Giudici scrive tra il 1963 (anche come vaglio e rifiuto delle
soluzioni neoavanguardiste:
«una giusta interpretazione politica della situazione dovrebbe concludere sulla necessità
di scegliere la famosa maschera non nel guardaroba novissimo, ma nel guardaroba tradizionale»: lettera del 24 febbraio) e il 1964, ispirate dalla riflessione sull’alternativa fra «letteratura della letteratura» e «letteratura della vita». Cruciali,
nello stesso periodo, le lettere
di risposta inviate da Fortini, in
particolare quella del 1 gennaio 1964. Si «potrebbe proprio,
all’ingrosso, ricondurre le varietà italiane contemporanee a
quattro gruppi» osserva Fortini: quello che nega «il presente
metafisico religiosamente in
modo quietistico-contemplati-
vo» (che avrebbe in Bo il suo rappresentante
emblematico);
«quello che lo fa in modo drammatico attivo» (come lo stesso
Giudici); «quello che nega il presente in modo storicistico-sociologico o laico, per così dire,
ma in modo quietistico-contemplativo» (il nome associato
a questa categoria è quello di
Sereni); infine, il gruppo di
«quelli che in modo storicistico-sociologico vogliono sentire in chiave drammatico-attivistica» (cui lo stesso Fortini si assegna). Le idiosincrasie e le affinità sono tipicamente fortiniane; caratteristico è il modo di
procedere nell’analisi e nella
replica. Sembra che Fortini ne
sia cosciente, al punto da concedersi, nella medesima lettera,
il privilegio autoironico di fare
la parodia di sé stesso: «Sai che
per me è indiscutibile che si
debba cominciare dall’universo». In questo senso, il carteggio parrebbe aggiungere poco
all’immagine e alla conoscenza dell’autore: qui Fortini è Fortini, per così dire, al quadrato.
Sennonché, a emergere è il suo
ruolo maieutico, la sua capacità di stimolare nell’interlocutore il confronto sulle questioni
da lui stesso poste come centrali. È la figura del maestro che il
carteggio ci consegna; nemme-
Riccardo Corcione
ha curato questo
carteggio 1959-1993,
annodando i fili
tra missive e opere
no questo, certo, è un profilo
inedito, ma colpisce rilevare
l’importanza di Fortini per un
autore che, come Giudici, seguirà altre strade e raggiungerà altri approdi sia poetici sia
ideologici. In effetti, il carteggio da un lato consolida l’immagine di Fortini come pivot
critico del secondo Novecento
letterario, dall’altro illumina
una fase determinante della
formazione di Giudici che non
si ricava immediatamente dai
suoi testi.
Negli anni il rapporto s’incrina, per poi cambiare di segno e
farsi meno aperto, ma anche
più paritario. La prima frattura
si era prodotta nel 1967, quando alcune circostanze avevano
messo in luce la distanza ideologica tra i due poeti. Durante
un viaggio a Praga, Giudici aveva manifestato le proprie simpatie verso il «socialismo dal
volto umano» di Dubcek; nello
stesso periodo, aveva cominciato a collaborare con «l’Espresso», settimanale ritenuto troppo coinvolto proprio
nelle dinamiche dell’industria culturale di cui Fortini e
Giudici avevano discusso nelle loro lettere. La rottura si consumerà tra la fine del ’69 e l’inizio del ’70; ma Giudici, che
nell’ultima lettera a Fortini si
dichiarerà ancora suo «vecchio “alunno” ed amico», non
smetterà di considerarlo un interlocutore privilegiato. «Ti
leggo ogni tanto, con vario grado di consenso – scriveva Giudici nell’ottobre del 1983 – Ma
ciò mi sembra of minor relevancy. Mentre è more relevant (per
me, per la mia coscienza) che
io mi senta mosso questa sera,
a scriverti, per renderti – ancora una volta – testimonianza».